Il 6 dicembre 2007 alla ThyssenKrupp di corso Regina sette lavoratori vennero divorati dal fuoco di un incendio. L’assenza di ogni minima norma di sicurezza da parte dei padroni fu la causa di quella strage. Alcuni morirono subito, altri dopo una lunga e straziante agonia.Quel giorno di dicembre alla ThyssenKrupp si consumò una tragedia annunciata. In una fabbrica vecchia, che i padroni volevano da tempo chiudere, la sicurezza era una chimera, il ricatto del lavoro sempre più forte in una città dove si stavano consumando gli ultimi fasti di una gloria industriale ormai agli sgoccioli.Da allora la situazione è peggiorata, nonostante le lacrime di coccodrillo di istituzioni, Confindustria e sindacati confederali.
Quest’anno si sono moltiplicate cerimonie e commemorazioni. Rituali inutili, perché nei 15 anni da quel rogo, la guerra del lavoro è diventata ancora più feroce.
Negli ultimi anni c’è stata un’impennata dei caduti sul lavoro. Le chiamano “morti bianche” ma sono le vittime di una guerra vera, quella del lavoro. Una guerra feroce tra chi possiede i mezzi di produzione e muove le leve della finanza e chi possiede poco o niente.
I padroni, dalla grande industria alla piccola media impresa, si arricchiscono con il lavoro degli altri, elargendo, in cambio, le briciole dei profitti. È la guerra di classe, una guerra che i padroni combattono ogni giorno, ogni ora, e che anche noi dovremmo combattere con altrettanta forza.
Nel nostro paese vengono uccisi ogni anno 1400 lavoratori e lavoratrici. Diciannovemila dal 2009. Ai morti sui luoghi di lavoro si sommano i tanti che perdono la vita mentre si recano in fabbrica, in ufficio, a fare una consegna. Perché un mercato del lavoro che costringe a spostamenti sempre più lunghi, ad accettare un posto anche a trenta o quaranta chilometri di distanza, fanno si che si muoia anche mentre si va o si torna dai luoghi della servitù salariata. Durante le fasi più acute della pandemia i tagli al trasporto pubblico che hanno esposto tutt* a maggiori rischi sono frutto della stessa logica del profitto per cui le imprese riducono la spesa per la sicurezza.
Di lavoro si muore anche per malattie professionali, magari dopo qualche anno di pensione. Avvelenamenti cronici da sostanze tossiche, esposizioni ad agenti oncogeni, sfiancamento. O magari si è più fortunati: non si muore ma ci si porta fino alla tomba una qualche patologia più o meno debilitante.
Negli ultimi dieci anni il numero di morti e feriti sul lavoro è costantemente aumentato. Da anni le condizioni di schiavitù dei braccianti allungano la lista dei lavoratori uccisi nella guerra del lavoro. Si muore tra le macchine stridenti nell’industria, si muore di fatica nei campi.
Anche le nuove “professioni” della “gig economy” uccidono: diversi rider, i fattorini che, in bici o in motorino, consegnano cibo per conto di qualche grande piattaforma come Glovo o JustEat sono morti. Altri sono rimasti feriti. Lo stato delle strade, i ritmi frenetici del cottimo e l’ideologia che glorifica la performatività e l’autosfruttamento che le aziende vorrebbero che i lavoratori introiettassero, sono le cause principali. Se si somma la scarsa manutenzione dei mezzi, che sono di proprietà del singolo rider e su cui l’azienda non si assume nessuna responsabilità, e la pretesa che lavorino anche in condizioni climatiche estreme, il quadro è completo.
La precarizzazione e l’aumento della ricattabilità davanti al padrone costringono ad accettare condizioni di lavoro che fino a qualche anno fa si sarebbero respinte.
È così in tutto il mondo. Quale che sia la bandiera con cui si rappresentano i potenti, i padroni, si arricchiscono con la morte degli sfruttati. La nostra risposta, come sfruttati, lavoratori, disoccupati, precari, non potrà che essere sul piano internazionalista e di classe.
I padroni stanno combattendo una guerra che come sfruttati dobbiamo riconoscere come tale. E combatterla. I sindacati confederali e le istituzioni si limitano a qualche frase di circostanza. Non ce ne stupiamo: il loro ruolo è quello di guardiani dell’ordine costituito.
Solamente noi sfruttati possiamo prendere in mano le redini del nostro destino e, con l’azione diretta, scioperi, picchetti, blocchi, potremo liberarci e vivere una vita in cui non si muoia più in nome del profitto di qualche padrone.
Cambiare è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.